Una pennellata di verde alla comunicazione aziendale non è sufficiente a catturare la fiducia dei consumatori italiani. È quanto evidenzia questo report elaborato utilizzando – insieme a Brandwatch e GWI – la piattaforma Audiense di cui siamo partner e rivenditori esclusivi in Italia. I risultati, relativi al periodo luglio 2020/giugno 2022, confermano l’accresciuto interesse del Belpaese per le tematiche ecologiche. Il greenwashing, e cioè l’insieme di strategie di marketing che fanno passare come ecosostenibili le attività di brand impattanti sull’ambiente, costituisce il primo disincentivo all’acquisto dei prodotti di un marchio per quasi un italiano su due (48%).
I dati rivelano che i consumatori italiani sono più maturi: respingono l’insieme di strategie di marketing che vorrebbero far passare come ecosostenibili le attività di brand impattanti sull’ambiente. Più attenti a che la sostenibilità non sia solo di facciata.
Secondo i dati di GWI, il 42% degli utenti rifiuta di far guadagnare profitti alle compagnie che dedicano «scarso tracciamento sull’impatto ambientale del business» e il 41% diffida dallo shopping presso chi mostra «mancanza di trasparenza nella supply chain». Soltanto il 20% degli individui intervistati ripone cieca fiducia nelle dichiarazioni delle ditte circa il loro impegno per la cura della Terra. L’8% non si fida affatto. C’è un desiderio di pratiche aziendali più olistiche e trasparenti. I consumatori vogliono che le aziende diano il loro contributo alla comunità locale, alla beneficenza, ai loro dipendenti e che influenzino positivamente l’ambiente.
Tendenza da invertire
In un anno, il volume di ricerche in rete sul tema è cresciuto del 73%. Si pensi all’ingresso del termine “greenwashing”, nel 2021, nel dizionario della lingua italiana dell’Enciclopedia Treccani o all’urlo «Stop greenwashing!» del cantautore Cosmo al Festival di Sanremo dello scorso 4 febbraio. A prestare maggiore attenzione alla finta propaganda verde sono i laureati che risiedono in grandi città (Milano, Roma e Torino) e gli italiani appartenenti alla fascia anagrafica compresa fra i 18-24 anni. Un anno fa, la discussione online sul tema proveniva prevalentemente da tre categorie psicografiche di internauti: gli attivisti (21%), già impegnati in questioni verdi; i “cosmopoliti” (35%), soggetti interessati all’attualità e alla politica; la “green finance” (40%), manager attenti a coniugare gli affari all’ecologia. In soli 12 mesi si sono aggiunte al novero altre due tipologie di utenze: i “digitalisti”, persone che vivono la loro quotidianità nel web; gli screen addicted, appassionati alla virtualità. La diffusione del greenwashing non va sottovalutata. Crea una società divisa tra aziende a cui va riconosciuto l’impegno sul tema e altre che preferiscono investire su una comunicazione che non viene confermata dalla cruda realtà.
La storia dell’azienda e il mercato di riferimento influiscono sulle misure che possono essere adottate per creare valore, ma mettere al primo posto le persone e il Pianeta è un buon punto di partenza. Un punto di partenza che però deve essere spontaneo, naturale e soprattutto tangibile.
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